Qualche sera fa, buttati sul divano, io e mia moglie abbiamo guardato un reel: un giovane ci spiegava, guardandoci dallo schermo come se fossimo sua figlia tra qualche anno, perché dopo 12 anni stava lasciando Milano. Il video, dopo avere elogiato la nostra città, sentenziava “Milano piano piano, silenziosamente, ci ha tolto il tempo per stare”. Mi ha interrogato, ci ha interrogato. Sarà che io in certe dinamiche ci sto un po’ stretto, ma ho sentito un richiamo di speranza nelle parole di quel Gabriaprile…
Certo, noi viviamo in un’epoca di progresso tecnologico e in un luogo fondamentalmente di benessere e dobbiamo ammettere che è un bel colpo di fortuna. Eppure, guardandoci intorno e ascoltando le parole del nostro arcivescovo, c’è un senso diffuso di inquietudine e sfiducia. La speranza è un tema fondamentale, non solo a livello religioso, ma anche educativo e sociale. Ma non riguarda anche le nostre famiglie, forse? Tutti prima o poi sperimentiamo che la vita è un cammino incerto ma proiettato verso il futuro; la speranza dovrebbe essere la nostra bussola, offrendo una direzione.
Sperare è qualcosa di strutturale per noi esseri umani: ci permette di andare oltre l’immediato, di sognare e di dare un senso al nostro cammino. Perfino dal punto di vista etimologico, gli studiosi della linguistica dicono che la parola speranza deriva da un’antichissima radice sanscrita che indica l’essere protesi oltre se stessi. L’uomo è capace di avere un orizzonte, di andare oltre l’immediato, di sognare per il futuro, di darsi una direzione. La speranza è, in qualche modo, il baluardo contro l’assurdo.
Eppure, a volte mi sento bloccato ed è più comodo dare una pennellata di incerto ottimismo, più che di speranza, ai sogni miei e della mia famiglia. Parlo di quei sogni che avevano lo sguardo avanti quando ci siamo sposati… Ma la speranza è qualcosa di diverso dall’ottimismo: l’ottimismo si basa su probabilità e può crollare di fronte alle delusioni. La speranza, invece, trasforma il modo di vivere e ha una dimensione comunitaria: nelle famiglie coinvolge e impegna tutti, permettendo a ciascuno di sperare per il bene degli altri e di tutti.
Quindi, in modo un po’ intellettualoide mi sono chiesto contro chi combattere per difendere la mia speranza a volte così deboluccia. Forse un primo passo, è riconoscere che sono dentro la società della prestazione. L’educazione e lo sviluppo personale sono stati sostituiti dall’efficienza, dall’autorealizzazione e dal conseguimento di obiettivi misurabili. A volte mi dimentico che ci siamo innamorati “per quello che eravamo” (certo con gli occhi a cuore i difetti diventano più piccoli che nel quotidiano) e che abbiamo accolto i figli come doni e non come “nostri prodotti”. Quando sono performante, quando voglio “essere meglio” perdo l’entusiasmo dello “stare con” e mi riduco a “fare per”, perdendo di vista il nostro orizzonte condiviso che viene soffocato dagli sforzi dello stare al ritmo.
Ho letto che siamo nella società della stanchezza: sempre sotto pressione per essere performanti. Arrivare a tutto diventa un peso, e l’anima, sede della speranza, viene lasciata indietro perché “fa perdere tempo”. Stare insieme, però, è l’anima della famiglia: è nello stare e nell’ascoltare che costruiamo quei “noi”, quell’essere voluti bene in famiglia. Ho bisogno di liberarmi, almeno tra le mura di casa, dal bisogno di visibilità sociale e di ammirazione che spesso guida i nostri comportamenti. È che a volte siamo come Narcisi che vivono per l’approvazione altrui, e stanca le relazioni autentiche. E come se non bastasse, la nostra speranza deve fare i conti con l’iperstimolazione di ciò che ci circonda. Le mille attività e possibilità rinchiudono la nostra attenzione profonda nella frenesia. È come se, rincorrendo vorticosamente tutte le incombenze, perdessimo la capacità di creare qualcosa di nuovo e significativo.
Solo l’attenzione profonda permette alla speranza di fiorire e di dare senso al nostro cammino. Sono ancora sul divano. Ma ho deciso di cambiare sguardo. Forse per rivestirci di nuovo abbiamo bisogno di guardare la realtà per quella che è, sapendola leggere, ma con gli occhi di quella speranza cristiana che è già certezza.
Emanuele Bonazzoli