A 30 anni esatti dalla morte, don Peppino Diana: un uomo credibile, come lo è solo chi ama
San Giuseppe.
Era il suo onomastico quando con cinque colpi al viso lo hanno ammazzato.
19 marzo 1994.
Quel giorno Don Peppino Diana si reca in chiesa per celebrare la Messa e nella sacrestia intorno alle 7:15 viene raggiunto dal suo assassino.
La sua gente vuole uscire di casa, andare in piazza, testimoniare la loro vicinanza, ma i carabinieri lo impediscono: temono ulteriori rivendicazioni della camorra. Poi però vincono le persone e le piazze si riempiono. Al funerale saranno numerosissimi e sui balconi i lenzuoli bianchi urlano in silenzio “era innocente”.
Don Peppino da ormai tre anni si è schierato apertamente, vuole una Chiesa di denuncia e annuncio. È il luglio del 1991 e davanti all’ennesimo innocente ammazzato redige un documento intitolato “Basta con la dittatura armata della camorra”.
“Non è più tollerabile che muoiano innocenti per mano della camorra e che le istituzioni siano fiacche”.
A Casal di Principe la caserma dei carabinieri veniva presa d’assalto se solo osavano intervenire per una lite. A Casal di Principe non lavoravi senza avere a che fare con la camorra. Qui l’assessore era camorrista e più in là lo era lo stesso sindaco. Era la Casal di Principe raccontata da Saviano in Gomorra. L’unico ostacolo della camorra erano le lotte intestine che facevano centinaia di vittime innocenti.
“Non sono un politico – dice di sé – ma un uomo di Chiesa che si limita a lottare accanto alla gente che abita questi luoghi, nel tentativo di affermare quei diritti negati che il malgoverno e la camorra hanno sempre negato. Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare. Bisogna risalire sui tetti e riannunciare la “parola di Vita”.
Come dice don Ciotti: “non bastano i giudici, ci vuole soprattutto la società civile, la morale.” Con don Peppino inizialmente sono in pochi, ma non è un battitore libero. “La speranza è speranza solo se è di tutti”. Per questo reagisce. Nega i sacramenti ai camorristi, non concede loro i funerali, nega loro la cresima, perché aveva capito che l’uomo che teneva la mano sulla spalla del cresimando lo introduceva alla camorra e diventava il suo padrino.
Quando a tutti mancava il coraggio, don Peppe mostra che la Chiesa può avere “il coraggio della paura”, ovvero sentire paura, ma nonostante tutto tenerla dentro. Scrive allora un altro documento con gli altri parroci della Forania di Casal di Principe. Sono uniti. Sono Chiesa. Il documento si intitola “Per amore del mio popolo non tacerò”. Ne stampano centinaia di copie e i giovani le distribuiscono la notte di Natale 1991. Parla nelle scuole, dà un’alternativa ai ragazzi creando l’oratorio.
E tre anni dopo lo ammazzano. Qualcuno afferma che non è stato invano, perché quella morte è stata uno spartiacque e che da allora la comunità si è riscattata. Sono nate le cooperative sociali Don Diana: ristoranti, case famiglie per autistici, centri di assistenza, filiere produttive, costruite sui beni confiscati alla camorra.
Qualcun’altro invece ci ricorda che le mafie sono sempre più forti, sempre più intrecciate nel tessuto sociale ed economico. Ancora oggi dei preti vengono minacciati, affinché non interferiscano e non siano “segno di contraddizione”.
Il giudice Rosario Livatino nel suo diario scrisse: “Alla fine dell’esistenza non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. È questa credibilità di abitudini, comportamenti quotidiani, non eroici, ma giusti che decretò la morte di Don Giuseppe Diana, perché le mafie temono soprattutto la cultura della legalità, che lui predicava, non perché voleva combattere le mafie, ma perché amava il suo popolo e voleva celebrare la vita che le mafie avevano confiscato.
Marco Battaglia